Don Faustino

Se ne stava seduto ad ore sulla prima panca, accanto al confessionale. Immobile, come la statua di San Francesco che dall'altra parte della chiesa lo guardava da dentro la sua bella nicchia con il cielo stellato, non si curava nè dei rari parrocchiani che entravano ed uscivano frettolosamente, nè del freddo polare che d'inverno metteva a dura prova la fede e la resistenza fisica dei fedeli. Poi si alzava, distendendosi molto lentamente come il suo corpo indolenzito e scricchiolante esigeva, e si avviava verso la sacrestia, genuflettendosi fino a terra passando davanti all'Altissimo e accarezzando poi amorevolmente il saio del santo prima di scomparire oltre la tenda di velluto blu. I molti e gravi pensieri in cui era stato immerso fino ad allora se li portava tutti dietro, perchè non era bello lasciarne qualcuno a giro nella Casa del Signore. Pensieri disdicevoli per un prete votato all'amore per il prossimo, gli aveva detto una volta scandalizzato il parroco di un paese vicino, ex compagno di seminario, con cui si era ingenuamente confidato.  Pensieri criminali avrebbe sentenziato uno dalla parte di Cesare.

Con tanta comprensione e solidarietà in giro don Faustino i suoi pensieri aveva così imparato a tenerseli solo per sè. Considerando i mortali, ovviamente. Perchè a nostro Signore lui non nascondeva nulla. In fin dei conti era per Lui che lo faceva.

E non nascondeva nulla nemmeno a San Francesco, unico santo che riconoscesse degno di tale nome. Non per niente era l'unico che aveva lasciato in chiesa quando gli era stata assegnata, tanti anni fa, la parrocchia in quel paesino nella valle. Con l'aiuto del sacrestano e tra lo sdegno e la disperazione dei buoni parrocchiani, aveva preso tutte le altre statue di santi, retaggio dei parroci precedenti che avevano l'abitudine di portarsi dietro, al momento del loro arrivo, il loro santo personale, e li aveva relegati in uno stanzino della sacrestia, tra i ceri pasquali e le scope per la pulizia della chiesa. Solo San Francesco e nessun altro. Con un saio indosso, un paio di sandali ai piedi e un cielo di stelle sul capo.

E da San Francesco lui era partito, tanti anni fa. Si era liberato di tutto il superfluo e si era dedicato anima e corpo alla predicazione dell'amore per Dio e per il creato, uomini compresi. Proprio come San Francesco. E ricco della sua povertà se ne andava tra la gente del paese, seminando amore e amore raccogliendo a pieni mani.

Un prete anomalo, don Faustino, che non ci pensava due volte a mettere da parte la tonaca ed indossare abiti da lavoro per aiutare, quando necessario, coloro che ne avessero bisogno. E di paesani bisognosi di aiuto ce n'erano tanti.. C'erano i vecchi contadini che non ce la facevano più a far tutto da soli, c'erano quelli che rimasti soli perdevano anche la voglia di vivere, c'erano i malati, e tanti altri ancora. Bastava solo avere il cuore per vederli. E don Faustino aveva un cuore grande come la sua chiesa..  Non era raro che i parrocchiani lo aspettassero per la Messa e lui si trovasse da tutt'altra parte con qualcuno che avesse avuto urgente bisogno del suo aiuto.

Col passare degli anni don Faustino era diventato quasi leggendario nella valle. Se ne andava in giro su una bicicletta nera che si intonava perfettamente alla sua tonaca svolazzante, e d'inverno, con un copricapo di foggia siberiana che il sindaco gli aveva regalato dopo un viaggio in Russia per conto del partito. Nero fuori ma un arcobaleno di colori dentro. Era sereno allora, e di pensieri disdicevoli o criminali, che dir si voglia, in testa non ce n'aveva. La sua gente, grazie alla generosità della terra e all'onesto lavoro, poteva condurre un'esistenza tranquilla e decorosa. E a quei pochi sfortunati che non ci riuscivano pensava la solidarietà degli altri. La sua valle era il mondo, e, tutto sommato, era un mondo felice.

Un giorno però, preceduta dalle notizie strabilianti di chi, viaggiando, aveva avuto l'occasione di conoscerla, nella valle arrivò la televisione e la vita della gente lentamente cambiò.

Non per don Faustino, nei primi tempi. Tutto preso dai suoi fervori francescani, ignorò quel mostro tentacolare proteiforme che a suo dire trombava il cervello alle persone nè più ne meno come il trombino succhia via l'olio dai fiaschi di vino. Proseguì diritto per la sua strada. Ma se don Faustino caparbiamente si imponeva di ignorare la televisione, questa con altrettanta caparbietà e subdola perseveranza si dava da fare per conquistarlo. La sua voce lo inseguiva dalle finestre delle case mentre passava per la strada, i suoi mille volti lo perseguitavano mentre era in visita ai parrocchiani, i commenti della gente lo rincorrevano per tutto il paese.

Don Faustino si arrese. E la televisione cambiò quel semplice parroco montanaro molto di più di quanto non cambiasse i suoi parrocchiani.

Il mondo non era solo la sua valle. Al di là dei monti c'erano altre valli ed altre ancora, e mari. E più lontano altri continenti abitati da popoli e popoli di razze diverse. C'erano genti nell'opulenza più sfacciata ed altre nella più disperata miseria. Vide guerre, violenza e sopraffazione. Vide i volti dei bambini allo stremo per la fame e la disperazione delle madri, i malati lasciati morire, i vecchi abbandonati. La natura profanata e violentata. Questo Don Faustino vide alla televisione.  Quelle che prima erano conoscenze vaghe e confuse che sfumavano di fronte alla realtà della sua valle felice diventavano adesso altrettanto reali e tangibili al suo sguardo. Oltre i monti che delimitavano la sua valle esisteva una umanità dolente che invocava giustizia agli uomini e a Dio. E quel grido non poteva essere ignorato.

 Seduto immobile sulla prima panca davanti all'altare, accanto al confessionale, don Faustino se ne stava immerso nei suoi pensieri. Dall'altra parte della chiesa, dalla sua bella nicchia con il cielo pieno di stelle, San Francesco lo guardava impotente e preoccupato. Non era più il don Faustino che svolazzava in bicicletta con la sua tonaca nera al vento per le strade e i sentieri della valle. Si era intristito. Era diventato cupo e taciturno. Solo raramente si fermava a chiacchierare con i parrocchiani che incontrava per via e sempre con riluttanza si affiancava ad essi per un aiuto quando ce n'era bisogno. Gran parte del suo tempo lo passava seduto in chiesa, immerso nella semioscurità e nei suoi oscuri pensieri.

Antonio, il sacrestano, un po' per le mezze parole che di tanto in tanto don Faustino si lasciava uscire di bocca e un po' per il sincero affetto che nutriva nei suoi confronti, aveva capito la ragione del cambiamento e del travaglio del suo parroco. Non poteva farci nulla, se non scodinzolargli intorno, a debita distanza, per manifestargli la sua comprensione e solidarietà.

Antonio, che a tempo perso aiutava i fratelli nei campi e a tempo pieno correva dietro a tutte le gonnelle del paese, senza distinzione di età, fattezze o stato civile, era nato in un momento di distrazione di madre natura. Quasi più largo che alto e dall'incedere non proprio elegante, si esprimeva più a gesti che a parole, considerato che queste gli venivano fuori di bocca come pareva a loro e non come avrebbe voluto lui.  In paese le persone più colte, un po' scherzosamente e un po' no, lo definivano un maniaco sessuale con tendenze necrofile, visto che le sue prede più ambite erano le vecchiette ormai prossime all'eternità.   Quando il peso dei suoi pensieri gli diventava insopportabile don Faustino si sfogava con il povero Antonio. "Anche tu, Antonio, non mi vuoi punto bene. - gli disse un giorno - In paese sei sulla bocca di tutti. I tuoi compaesani mi mettono in croce, come se di croci non ne avessi abbastanza. Mi assillano che dovrei cacciarti dalla chiesa, e forse hanno ragione. Tu non sei un uomo, Antonio, sei un maiale. Te ne rendi conto?" Al che il sacrestano, contrito, contrito e con gli occhi bassi: "Non essere così cattivo don Faustino. Tu lo sai che la carne è debole. La mia poi è debolissima. Ma non faccio male a nessuno. Se mai propongo un po' di gioia alle nostre vecchiette inacidite. Ma se non mi vuoi più in chiesa, dimmelo e io scomparirò. Però vedi - aggiunse maliziosamente - che dirai poi a Nostro Signore quando lui ti chiederà delle pecorelle che ti aveva affidato? Gli dirai che una l'hai cacciata dall'ovile in bocca ai lupi perchè era brutta e antipatica?" "Hai ragione, Antonio - gli disse allora sconsolato don Faustino - hai ragione. Perdonami. Ti voglio bene." E il sacrestano Antonio se ne andò dondolando goffamente tra le panche, felice come una pasqua.

Per don Faustino di momenti felici non ce n'erano più da tanto tempo. Da quando la televisione gli aveva mostrato il mondo, le immagini dei miseri e dei derelitti si rincorrevano nella sua mente, non gli davano tregua. Lo facevano sentire in colpa per il suo quieto vivere, gli procuravano la dolorosa sensazione di aver sbagliato tutto, di essere stato inutile. In fin dei conti, che aveva fatto fino ad allora? Si era dedicato alle pecorelle che meno avevano bisogno di lui, che gli creavano meno problemi. Si era messo in pace la coscienza con il minimo sacrificio. Anzi, senza alcun sacrificio, perchè in definitiva aveva potuto vivere fino ad allora come a lui piaceva, sereno e tranquillo nella sua valle. Troppo comodo. Doveva rimediare. Tardivamente, ma doveva rimediare. Ma che poteva fare lui, dalla sua valle, così lontano da quella gente disperata? Che avrebbe fatto San Francesco al suo posto, in quel mondo sgangherato dove per un po' di ricchezza molti ammazzerebbero i propri simili e la propria anima? Quelli non ascoltavano le parole di uno come lui, povero parroco montanaro la cui unica ricchezza era una vecchia bicicletta nera regalatagli dal sindaco perchè non gli serviva più.Per loro lui avrebbe dovuto starsene rinchiuso in chiesa a celebrar Messa, aspettando e sperando che a Natale e a Pasqua loro si degnassero di parteciparvi. Loro parlavano un'altra lingua, avevano altri occhi, un altro cuore. Per indurli a far qualcosa occorreva usare parole che capissero. Occorreva toccarli nel profondo del cuore.

E quindi occorreva sporcarsi le mani. E non solo le mani.

 "Egregio signore,

sono venuto casualmente in possesso, da parte di una persona molto ben informate e degna della massima fiducia, di alcune carte concernenti l'attività finanziaria della sua azienda. Dispiace riscontrarvi alcune "birichinate" la cui divulgazione certo non farebbe onore nè all'azienda, nè al suo proprietario. Non è mia intenzione speculare su queste, ma penso che un modesto contributo riparatore, decida lei quale, all' indirizzo indicato in calce, gioverebbe forse alla sua coscienza e sicuramente a chi ne ha assoluto bisogno per sopravvivere."

 Di lettere simili sul tavolo della sacrestia ce n'erano una decina, ed a fianco altrettante buste già affrancate ma prive di indirizzo. Accanto a queste due lunghissimi elenchi riportavano, uno i nomi e gli indirizzi dei "donatori", ricchi commercianti, proprietari di aziende, società finanziarie, ecc. e l'altro quelli dei beneficiari, missionari, volontari, e più in generale organizzazioni e persone impegnate nell'assistenza e soccorso dei derelitti nelle varie parti del mondo.

Da quando don Faustino era passato all'azione, parte del tempo che prima passava in chiesa seduto davanti all'altare, lo passava adesso davanti al suo tavolo "da lavoro" in sacrestia. Vi aveva fatto mettere una serratura, e un giorno si e uno no vi si rinchiudeva a doppia mandata fino a sera per la preparazione della posta. Ad imbucare le missive provvedeva Antonio, che ogni sabato si recava nella capitale per far visita alla sorella Erminia, bidella in una scuola elementare della periferia.  Costei, ovviamente zitella considerando i cromosomi che circolavano in famiglia, vi si era trasferita quando le ultime speranze di maritaggio nella valle stavano ormai naufragando. Fermamente convinta che la causa della sua incombente sventura fosse la miseria culturale dei valligiani, buoni solo a mangiar polenta e mungere le vacche, aveva chiesto il trasferimento nella capitale sicura che i maschi di laggiù culturalmente ben più evoluti e sensibili al bello, non si sarebbero lasciato scappare un bocconcino prelibato come lei. Le cose poi non erano andate secondo le previsioni ed Erminia si era dovuta rassegnare ad una prospettiva di vita sola e miseranda. Oltretutto lontano dal fratello che era l'unica persona che le voleva sinceramente bene e in una "città di merda", come diceva amabilmente alle poche persone che osavano avvicinarla. 

"I maschi non mi meritano" fu l'amara conclusione, quasi un epitaffio. Ed ogni sabato aspettava in gloria il fratello, che con spirito missionario discendeva in treno dalla sua valle, per sfogarsi con lui del destino infame che le era toccato.

"Me le imbucheresti Antonio? " chiedeva don Faustino al sacrestano porgendogli il suo pacchetto di lettere legate con lo spago. Gli aveva spiegato che erano richieste di beneficenza e che, imbucate dalla capitale, avrebbero fatto prima ad arrivare. E lui, ignaro messaggero, fedelmente imbucava, dopo aver passato tutto il viaggio in treno a scervellarsi sul contenuto e lo scopo di quella misteriosissima corrispondenza.

Il sacrestano Antonio era molto sconcertato. Le continue metamorfosi e i misteri del suo parroco lo preoccupavano, lo rendevano inquieto. In un certo qual modo si sentiva tradito. Un parroco non dovrebbe avere segreti per il suo sacrestano, pensava, come lui non ne aveva. Oltre tutto, quell'inquietudine che si portava dentro non lo poneva nelle condizioni di spirito più idonee per star dietro alle sue gonnelle. E questo non era giusto. E allora gli gironzolava intorno per la chiesa scrutandolo di sottecchi, perquisiva la sacrestia quando non c'era nessuno, provava a buttar lì con finta disinvoltura qualche domanda trabocchetto su quel via vai di lettere, ma niente, lui era evasivo, non si tradiva, non faceva una piega. Anzi, a volte lo disorientava con battute scherzose.

"Come farai Antonio quando saremo lassù,  Come farai senza le tue vecchiette?"

"Perchè? - rispondeva lui sgranando i suoi occhi di topo - Forse che anche lassù, come a scuola, i maschi da una parte e le femmine dall'altra?"

In realtà don Faustino, superata la lunga crisi del dubbio, una volta prese le sue decisioni e passato all'azione, si era come rasserenato. E si era organizzato piuttosto bene. Carta, buste e francobolli per la corrispondenza li faceva comprare ad Antonio nella capitale e lì li faceva riportare come lettere chiuse ed affrancate per essere imbucate . Stava poi molto attento a non lasciar traccia in sacrestia del suo oscuro lavoro. Una volta preparata la corrispondenza, tutto il materiale lo rinchiudeva in una nicchietta ricavata, probabilmente come reliquiario, dietro la statua di San Francesco. Di lui si poteva sicuramente fidare. Quanto ad Antonio ed alla sua frenesia indagatrice, lo tranquillizzava la sua dichiarata allergia per i reliquiari.

 "Mi fanno impressione." diceva, come se al loro interno vi fosse chissà che cosa.

L'inverno passò  rapidamente per don Faustino tutto infervorato nella sua nuova veste di scrivano benefattore, ed altrettanto per Antonio in quella di investigatore e di postino. Passò come sempre per i monti innevati della valle che avevano ben altro a cui pensare. Qualche cauto sondaggio accertò che molti dei suoi inviti alla beneficenza erano stati accolti e di questo don Faustino fu contento. Continuò. Ma non lo ritenne sufficiente. Decise di aprire un secondo fronte. Interno, questo, alla sua Chiesa.

"Eminenza,

ti parlo come a un fratello, come Lui ci ha insegnato. Io penso che tu stia sbagliando e perciò ti scrivo..."

Non usava mezze parole don Faustino per dire quello che pensava, qualunque fosse la persona a cui fossero rivolte. E vescovi, cardinali e papa non facevano eccezione. Le diceva nude e crude, perchè sull'esempio di San Francesco, riteneva suo dovere dirle ed anche perchè col passar del tempo, un po' di Fra' Savonarola si era reincarnato in lui..

"Non pensi a quanti fratelli tu potresti donare la vita se rinunciassi ai privilegi, allo sfarzo, alle comodità che ti circondano? San Francesco ci ha indicato la via. Anche tu dovresti seguirla."

Firmato: don Faustino.

Tanto, che gli sarebbe potuto accadere? Che avrebbero potuto fargli? Il rogo ormai non usava più. Tutt'al più lo avrebbero severamente ammonito, o spedito in un'altra valle ancora più sperduta o messo in pensione in un convento. Don Faustino era preparato a tutto.

Al suo vescovo, oltre a quello epistolare, riservava anche un trattamento di persona. La prima domenica di ogni mese, dopo la Messa, andava a trovarlo per esporgli, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, il suo pensiero. Il brav'uomo, oltretutto tra quelli di più semplici e morigerati costumi, lo attendeva con l'ansia e la gioia con cui si potrebbe attendere un malanno.

"Ecco la mia colica.." pensava angosciato quando lo vedeva varcare la soglia del suo ufficio.

E dopo aver pazientemente ascoltato le buone ragioni di quel parroco montanaro, si arrabattava a spiegargli, come meglio poteva, che così andava il mondo, che lui era solo di passaggio e non poteva farci nulla, che per un prelato nella sua posizione anche la forma era importante, che San Francesco era stato fortunato perchè poteva disporre liberamente di sè e vivere come gli pareva, ecc. ecc.  Tutti argomenti che ovviamente non scalfivano minimamente don Faustino, che alla fine del colloquio, dopo il bacio rituale dell'anello, lasciava il prelato in un bagno di sudore, portandosi dietro le sue certezze e la sua tonaca nera svolazzante. Per un paio di giorni il vescovo se ne stava poi a casa a smaltire la colica che puntualmente era arrivata.

 

Tanti altri inverni passarono per don Faustino, fino a quando i suoi capelli cominciarono lentamente ad imbiancare.  Se ne stava seduto sulla prima panca, accanto al confessionale, immerso nei suoi pensieri. Dall'altra parte della chiesa, San Francesco lo guardava da dentro la sua bella nicchia con il cielo fulgido di stelle.

Don Faustino si volse verso di lui. Sentiva che lo stava chiamando.

"Adesso basta, Faustino - gli disse il santo con voce suadente - hai fatto molto di più di quanto ti avessi chiesto. Ritorna nella tua valle."

Aveva nevicato per tutta la notte e parte della mattina. Poi il sole aveva cacciato via le nuvole, che avevano fatto il loro dovere e non servivano più e dilagava imperioso per la valle. Scostata la tenda di velluto rosso all'ingresso della chiesa e affacciatosi fuori, don Faustino vide Antonio che, con un impermeabile di incerata nera lungo fino ai piedi e un cappellino di lana rosso tirato giù fino agli occhi, stava faticosamente spalando la neve dal sagrato. Rimase ad osservarlo, non visto, per alcuni istanti.

 "Don Faustino, vorrei fare il sacrestano" gli aveva chiesto tanti anni fa sulla porta della canonica, dopo il suo arrivo nella valle. Era poco più di un ragazzo allora.

"Sei assunto. In prova." aveva risposto scherzando lui.

Era cominciata così. Antonio, così bisognoso di considerazione, di affetto, di amore. Lui che ne aveva avuto così poco dai genitori, morti ammazzati dalla fatica e dalle malattie, dalla sorella, inaridita dal "reo destino che la perseguitava", dai paesani sempre pronti a criticarlo e a deriderlo. E da lui, don Faustino..

Antonio, che gli era sempre rimasto vicino, pronto ad assecondarlo, ad accontentarlo nelle sue stramberie, a subire i suoi sfoghi quando non ne poteva più . Antonio l'aveva superata la prova, eccome..

Sentì l'impulso di andare da lui, abbracciarlo e dirgli "Ti voglio bene, Antonio".

Lontano, in fondo alla valle, i monti splendevano al sole nel loro manto di neve nuovo di zecca. A loro di don Faustino, di Antonio e di tutto quello che succedeva nella valle, non importava proprio niente. Avevano ben altro a cui pensare, loro.

 

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